In un curioso libretto del 1828, Stendhal offre all’amico Romain Colomb una serie di utili consigli nella sua qualità di esperto turista dell’Italia del tempo: “I vetturini di questo percorso sono più furfanti degli altri: quando ci sono molti turisti inglesi essi chiedono anche 60 franchi mentre la tariffa ordinaria è di 40 franchi. Non è facile trovare alloggio a Napoli: vedere gli alberghi a Santa Lucia, prendere una camera al quarto piano: si vedono il Vesuvio e il mare. Tutte le sere, alle 6, più di una barca parte per Ischia, vengono richiesti 10 carlini; se ne danno 3 o 5 al massimo”. Sotto molti aspetti non sembra sia cambiato granché nell’approccio verso i turisti stranieri. Ai tempi, l’Italia era la meta più gettonata per il mitico Grand Tour, sorta di viaggio iniziatico, irrinunciabile esperienza di formazione per i giovani gentiluomini del Nord Europa e immersione nella patria dell’Arte per artisti e uomini di cultura.

“Un uomo che non sia stato in Italia sarà sempre cosciente della propria inferiorità, per non aver visto quello che un uomo dovrebbe vedere”, questo affermava Samuel Johnson in pieno XVIII secolo.

L’Italia è stata meta di viaggio fin dal Medioevo: le strade erano allora battute da pellegrini diretti a Roma.

Ma solo nel corso del XV secolo inizia la voga del viaggio laico ed erudito che diventa, a partire dalla fine del XVI secolo, una vera e propria moda. Il termine Grand Tour viene coniato da Richard Lassels nel 1670 e configura quella che nel secolo successivo può essere definita una vera migrazione annuale europea. Le grandi scoperte archeologiche di Ercolano e Pompei incrementano in modo significativo la fama della penisola quale immenso museo all’aria aperta dell’antichità classica, oltre che patria del Rinascimento, del teatro musicale (quante pagine di Roma, Napoli, Firenze di Stendhal sono dedicate ai prestigiosi teatri d’opera italiani), del saper vivere e del clima assolato e mite.

Il motore che muove schiere di giovani, letterati, artisti sulle vie d’Italia è la curiosità e la consapevolezza del valore educativo dell’incontro con la cultura del passato. Le pagine degli innumerevoli diari e resoconti del Grand Tour riportano osservazioni, incontri, riflessioni, esperienze intellettuali ed episodi improbabili vissuti nelle vie e nei palazzi delle città italiane: Roma, prima di tutto, la meta più ambita con il suo patrimonio di antichità e storia millenaria, e poi Firenze, Venezia, Napoli, Milano, Genova.

Veduta interna della Basilica di S. Pietro in Vaticano, Piranesi fecit.

Se sterminata è la letteratura che dà conto dei viaggi compiuti, altrettanto sterminata è la produzione figurativa che ne deriva: vedute, paesaggi, monumenti, riproduzioni di opere celeberrime, vengono prodotti come preziosi souvenirs del Grand Tour, spesso da artisti ingaggiati in patria ad hoc al seguito del giovane gentiluomo, altre volte acquistati dai pittori locali, più o meno famosi: quanti Canaletto adornano i saloni dei castelli e palazzi inglesi, memoria di viaggi di antenati lontani? E quanto deve il fenomeno ottocentesco del collezionismo a questa moda del vedutismo? Spesso è il viaggiatore stesso a cimentarsi: ci sono arrivati moltissimi album di disegni a matita o acquarelli di dilettanti talentuosi che volevano portarsi a casa un ricordo più vivo dei luoghi visitati. Infinita la produzione di incisioni, stampe, acqueforti, carte topografiche, soprattutto di Roma.

Sicuramente il giovane aristocratico o l’artista studioso di antichità che si fossero trovati a Roma nella seconda metà del XVII secolo e avessero voluto acquistare stampe di qualità da riportare in patria a ricordo della Città Eterna, potevano recarsi con fiducia nella bottega all’angolo tra via della Pace e via Tor Millina: aveva qui sede la più importante officina per la produzione e il commercio di stampe artistiche a Roma. La tipografia della famiglia De Rossi “alla Pace, sul cantone, all’insegna di Parigi” aveva cominciato la sua attività all’inizio del XVII secolo: Giuseppe De Rossi si era trasferito a Roma dal milanese e aveva impiantato una solida attività di stampatore specializzato nella riproduzione degli antichi monumenti meta degli appassionati viaggiatori del Grand Tour. A trasformare una bottega di carattere familiare in una vera e propria officina rinomata a livello internazionale fu il figlio Giovanni Giacomo, subentrato al padre verso il 1638: dai suoi torchi, tra il 1638 e il 1691, escono diverse piante della città, mappe archeologiche e soprattutto opere dedicate alla raffigurazione dei monumenti antichi e moderni della città.

Una bella legatura coeva in pergamena riunisce quindi due opere veramente affascinanti: la prima, “Romanae magnitudinis monumenta quae urbem illam Orbis dominam velut redivivam exhibent posteritati”, è stata impressa nel 1699 Cura, Sumptibus ac typis Dominici de Rubeis, Io: Iacobi haeredis ad Templum S.Mariae de Pace. Lo scopo del volume è riproporre in tutta la loro magnificenza gli edifici le cui rovine riempivano la città di Roma. La raccolta di incisioni in calcografia si apre con 18 tavole di interesse antiquario sulla storia e i costumi di Roma antica. A queste seguono 118 tavole, incise e stampate con tratti netti e nitidi accompagnate da accurate descrizioni anch’esse intagliate in rame: tutti i più importanti monumenti e siti archeologici dell’antica Roma rivivono nella loro integrità per quello che lo studio dell’archeologia dell’epoca poteva ricostruire. Le tavole non sono firmate, ma l’Enciclopedia Treccani attribuisce questo capolavoro a Pier Santi Bartoli, che è riportato come incisore in calce alla tavola di dedica dell’opera: “La reputazione di architetto, o meglio di studioso di architettura, del Bartoli è legata alla ricostruzione da lui proposta, nell’atto di inciderli in rame, di molti fra i più insigni monumenti dell’Urbe. A metà strada fra il cinquecentesco Speculum di A. Lafréry e le settecentesche Antichità di G. B. Piranesi, il Bartoli assume per suo conto, con una preparazione ed una disposizione d’animo più vicine a quella spiccatamente archeologica del primo che a quella essenzialmente lirica e in un certo senso drammatica del secondo, il tema della “magnificenza di Roma” e lo sviscera con una tenacia ed una costanza che durano un’intera vita, estendendolo alle pitture, alle lucerne sepolcrali, alle monete, alle gemme antiche”.

Personalmente trovo molto più affascinante la seconda opera rilegata in questo volume: stampata senza data ma collocabile nel 1660, questi “Vestigi delle antichità di Roma Tivoli Pozzuolo e altri luoghi come si ritrovavano nel secolo M.D.” guardano ai monumenti antichi con un altro occhio: qui protagonista è la Roma del XVI secolo con vedute in cui le rovine romane si inseriscono naturalmente nelle vie e nelle piazze animate da piccole figurette che ci riportano alla vita del tempo; non sembra un caso che spesso queste figure possano essere identificate con turisti in ammirazione dei resti dell’antica potenza di Roma. La tipografia è proprio quella di Giovanni Giacomo De Rossi. Questa raccolta di stampe in realtà riprende un’opera precedente che aveva avuto molto successo grazie soprattutto alla fama dell’incisore: anche in questo caso gli autori delle due edizioni fanno parte di un’unica famiglia, la più grande e probabilmente più nota tra le dinastie di incisori fiamminghi che operarono in Europa nei secoli XVI, XVII e seguenti, sia come artisti che come editori. Le bellissime calcografie del nostro volume infatti sono firmate da Marco Sadeler, che come dicevamo riproduce, reincidendone i rami, un precedente lavoro di un altro Sadeler, Aegidius, incisore di corte di Rodolfo II, opera edita a Praga nel 1606.

Quasi in un gioco di scatole cinesi, anche il volume del 1606 era in realtà una riproduzione in formato ridotto di un’altra celebre opera, “I vestigi dell’antichità di Roma raccolti et ritratti in perspettiua con ogni diligentia da Stefano du Perac parisino”, pubblicato a Roma presso Lorenzo della Vaccheria nel 1575: in tutte le tre edizioni troviamo le stesse 38 vedute di Roma, ma, confrontando le tavole del Du perac a quelle dei Sadeler, si percepisce chiaramente una mano diversa: nelle tavole dei due incisori fiamminghi troviamo uno stile più ricco di chiaroscuri che conferisce maggiore profondità alle vedute. E in più la versione dei Sadeler non si limita alla visita alla città eterna, ma accompagna i nostri viaggiatori in altri luoghi famosi nel Grand Tour per la loro bellezza e i loro monumenti: ecco allora due vedute di Tivoli e sette romantici paesaggi dei dintorni di Baia e Pozzuoli, a cui si aggiungono, in un accostamento non proprio coerente, un immagine di Barland nella Zelanda e una veduta del Castello di Vissehrad in Boemia.

E’ sempre una grande emozione sfogliare volumi come quello che ho provato a descrivervi: tra le pagine sembra di percepire l’eco dello stupore e dell’ammirazione di tutti quanti ci hanno preceduto nella visione di immagini così belle. Ma in fondo è quello che succede con qualsiasi libro antico si abbia fortuna di avere tra le mani.