Ercolano, Pompei e il Real Museo Borbonico
“C’è qualcosa di prodigioso in una città che dopo secoli torna alla luce del sole”
Con queste parole Mario Praz, nel suo libro Gusto Neoclassico, fa rivivere l’entusiasmo che suscitò ai tempi la riscoperta, sotto gli strati di lava solidificata, di Ercolano e Pompei, le due città romane seppellite dalla disastrosa eruzione del Vesuvio del 79 a.C..
Una scoperta casuale: nel 1709, nello scavo di un pozzo d’irrigazione, riaffiorano frammenti di alabastro e marmi pregiati. Ulteriori scavi portano alla luce colonne, iscrizioni, statue di marmo. Le prime ricerche sistematiche partono nel 1738, volute da Carlo III: riaffiora Ercolano. Nel 1748, sotto Civita, ecco Pompei.
Le notizie dei ritrovamenti fanno il giro d’Europa: artisti, studiosi, letterati, ma anche i giovani pupilli della nobiltà impegnati nel canonico Grand Tour, accorrono per vedere gli scavi e i reperti.
Goethe, Italienische Reise: “Napoli, il 13 marzo 1787 Domenica siamo stati a Pompei. Avvennero molti infortuni a questo mondo, ma nessuno che valga ad arrecare cotanta soddisfazione ai posteri. Non ho visto finora cosa più interessante di quella città sepolta”
Le scoperte napoletane si uniscono a quelle romane contemporanee, alla costituzione delle grandi raccolte del Museo Pio-Clementino, voluto dai papi Clemente XIV e Pio VI per raccogliere i più importanti capolavori greci e romani custoditi in Vaticano, alla sistemazione delle collezioni delle ville Albani e Borghese, per dare vita ad un nuovo movimento artistico, il Neoclassicismo, che trova nell’antichità l’espressione ideale per i propri valori di equilibrio, compostezza, misura. Gli studi del Winckelmann, che culminano con la pubblicazione della Geschichte der Kunst des Altertums nel 1764, consacrano il nuovo ideale di Bellezza universale.
Un ruolo centrale nella diffusione del nuovo gusto è affidata all’arte dell’incisione. Le nuove scoperte di Ercolano e Pompei, raccolte nelle collezioni reali del Museo di Portici, erano protette da un rigoroso copy-right dalla corte Borbonica: non era possibile ottenere l’autorizzazione a disegnare dal vivo negli scavi e nel museo. Ecco allora gli otto grandi in-folio delle Antichità di Ercolano esposte, pubblicati tra il 1757 e il 1792, a riprodurre con esattezza, chiarezza e razionalità tutte settecentesche, i reperti e le pitture ritrovate. I volumi, non in vendita ma esclusivamente omaggiati dal Re a suo piacimento, diventano la fonte ricercatissima dei motivi decorativi della pittura, delle scultura, delle suppellettili antiche riemerse dalla lava: innumerevoli copie, soprattutto dei primi quattro volumi, dedicati alla pittura, invadono l’Europa.
Tornano prepotentemente in voga le decorazioni parietali a grottesche che già avevano tanto suggestionato gli artisti del Rinascimento: pensiamo alle logge Raffaellesche nei palazzi Vaticani.
Ogni corte Europea vuole avere la sua camera “pompeiana”: affreschi, pannelli decorativi, tappezzerie, da Parigi, a Londra, fino al palazzo di Caterina II a Tsàrkoje Selò, si popolano dei motivi ellenistici che riaffiorano dalle vivaci pitture riscoperte, di soggetti mitologici, di architetture fantastiche, di trompe-l’oeil.
Attraverso i cataloghi e i repertori di immagini, i reperti antichi diventano modello per artisti e creatori di arredi: dalla passione iniziale per le scoperte archeologiche di una società aristocratica ristretta si passa al neoclassicismo maturo che informa di sé il mondo borghese.
Nel 1762 l’Abate Galiani scrive da Parigi a Bernardo Tanucci ministro del Re di Napoli: “Ci sono già tutti i mobili di casa à la Grecque, tabacchiere, ventagli, oriuoli, e fino alle insegne delle botteghe…Sui camini, in cambio delle figure cinesi o di porcellana sassoni, si vedono tripodi in bronzo dorato”; da Vitruvio si ricavano ricami per i vestiti, le incisioni di Flaxman, di Fontaine e Denon forniscono modelli alle ceramiche di Wedgwood e di Sevres; il servizio da tavola della Real Fabbrica di Capodimonte, regalo di Ferdinando IV al padre Carlo III nel 1782, ottantotto pezzi fra piatti, terrine, vasi e trionfi, è tutto una copia di opere ercolanensi; vengono rimessi in voga materiali e antiche tecniche esecutive: il riutilizzo di marmi antichi si traduce nella creazione di preziosi piani in marmi colorati di complessa geometria o nella composizione di micromosaici raffinatissimi. In questa diffusione capillare riaffiora la componente di modernità del movimento neoclassico, che coniuga esigenze di razionalità e socialità, in una fruizione del Bello che investe tutti gli oggetti di uso quotidiano e non solo le più alte creazioni artistiche, appannaggio di ristretti gruppi sociali.
Possiamo allora solo immaginare le aspettative suscitate dalla pubblicazione nel 1824 del primo volume del Catalogo del Real Museo Borbonico, custode di tutte le scoperte degli scavi campani. E’ questo il punto di forza che viene messo in evidenza nella presentazione di questa opera monumentale che consterà alla fine di 16 volumi: “Il Real Museo Borbonico ricco di opere insigni al pari dei più celebrati d’Europa avanza ogn’altro per Monumenti che lo fanno unico al mondo; e son quelli che, sepolti e in un conservati con intere città dal vicino Vulcano, risorgono dopo diciotto secoli a indurre nelle colte nazioni meraviglia e diletto”. E’ Ferdinando I il promotore della pubblicazione, la prima autorizzata delle opere del Museo, in cui “concede che il Real Museo Borbonico sia fatto di pubblica ragione per via delle stampe senza riserva delle cose rinvenute negli Scavi, rimaste fin’ora inedite pel divieto di disegnarle” che vigeva fin dai primi scavi ad Ercolano per tutti i reperti di proprietà della casa reale.
Ma non ci sono solo i reperti di Pompei ed Ercolano a rendere unico il catalogo del museo borbonico: nelle sale del Palazzo degli Studi (attuale sede del Museo Archeologico Nazionale di Napoli) Ferdinando fa confluire le immense ricchezze delle collezioni Farnesiane, ereditate dal padre Carlo, che aveva spogliato il Ducato di Parma delle prestigiose raccolte di pittura rinascimentale tra il 1735 e il 1739, e dalla nonna Elisabetta Farnese, con la sua collezione di antichità trasferite da Roma a Napoli tra il 1786 e il 1788 nonostante l’opposizione di papa Pio VI.
E allora, come annunciato nella presentazione al Vol. I, “l’edizione conterrà: monumenti architettonici, statue e bassorilievi, dipinti antichi, del Medio Evo e del risorgimento dell’arte fino alle scuole de’ Caracci, bronzi, musaici, utensili, suppellettili, vasi detti volgarmente Etruschi, armi, gemme incise e medaglie, monete, monumenti orientali, Egizi, de’ Bassi tempi ed altri oggetti di vario genere”.
Le opere sono presentate in 973 tavole incise in rame al tratto, alcune litografate in chiaroscuro con suggestive vedute di Pompei. Il criterio di presentazione scelto è quello della commistione tra opere di epoche e generi diversi, senza ordine cronologico, soprattutto perché nel frattempo continuavano le scoperte dei cantieri di scavo. Interessantissima allora la presenza, alla fine di ogni volume, delle Relazioni degli scavi di Pompei che seguono in diretta l’avanzamento dei lavori in concomitanza con la stampa dei singoli volumi, dal Febbraio 1824 al Dicembre 1855.
Se pensiamo all’emozione che suscitano ancora oggi le notizie mediatiche del ritrovamento di nuovi capolavori nell’inesauribile campagna di scavi sotto il Vesuvio, possiamo immaginare quale attesa accompagnasse tra studiosi e dilettanti la pubblicazione di ognuno dei 16 volumi del catalogo.