Il gruppo di otto dipinti in oggetto (figg. 1-8) rappresenta, nel classico formato fiorentino dell’ottagono, una serie di effigi femminili a mezza figura.
Più precisamente, si tratta di giovani fanciulle elegantemente vestite, disposte in varie attitudini ma accomunate, ad eccezione di due esemplari sui quali ci soffermeremo in seguito, dall’accento sulla ricchezza, evidenziata sia da particolari di fastose console e drappeggi, sia da collane di perle o tessuti preziosi che le donne talvolta maneggiano, ponendovi così l’accento.
Una delle figure porta in testa una corona reale, altre dei turbanti o inconsueti copricapi. Questi dettagli conferiscono ai personaggi un aspetto principesco, talvolta abbinato a richiami orientaleggianti.
Una formula che riporta alla mente il caso di un dipinto da poco riscoperto nella sua vera identità, il “Ritratto fino a mezzo busto di Regina Armena” di Mario Balassi, seducente connubio di recuperi alloriani ed elementi di fantasia conservato alle Gallerie degli Uffizi (vedi F. Berti, Da ritratto mediceo di Jacopo Ligozzi a Regina d’Armenia di Mario Balassi.
Un caso storico artistico tra fortuna critica, indagini documentarie e osservazioni ‘morelliane’ in “Valori tattili”, 7, 2016, pp. 30-49). Come accennato, si distinguono dagli altri due ottagoni, nei quali le fanciulle occupano maggiore spazio all’interno del dipinto, apparendo di una scala lievemente diversa.
CODICE: ARTPIT00001710
In uno di questi (fig.1) la donna è riconoscibile con certezza in una Aurora, per la stella che rifulge sopra la testa: “la grande e rilucente stella, che ha sopra il capo, si chiama Lucifer, cioè apportatore della luce” (C. Ripa, Iconologia, ed. Milano 1992, p.81).
L’altra (fig.2), d’identificazione non altrettanto palese, ci pare riconoscibile, grazie alla presenza della compagna, in una Notte: la giovane porta una grande tela avvolta ad un’asta, alludendo con buona probabilità – e una apprezzabile invenzione – ad un attributo consueto dell’allegoria, ossia un drappo che vela la luce.
Le tavole, ancora conservate nelle loro originali cornici dorate, sono numerate sul retro, in grafia settecentesca, con cifre che si collocano irregolarmente dal numero 4 al 23, certificando l’appartenenza di questo gruppo di ottagoni a una serie più ampia.
A conferma di questa ipotesi una delle figure dei dipinti in esame, quella numerata con il n. 23 (fig. 3), ci è nota per un’altra versione (fig. 4), appartenente a una serie di quattro tele rettangolari della stessa mano, anch’esse incentrate su eroine femminili, apparse sul mercato antiquario con una attribuzione al pittore settecentesco napoletano Jacopo Cestaro (fig. 5; cm 34,5×26,5).
Le tre rimanenti figurazioni che non trovano corrispondenza nella nostra serie dovevano un tempo comparirvi, così come verosimilmente le altre due parti del giorno, il Giorno e il Crepuscolo. Queste ultime sono tradizionalmente affidate a personaggi maschili, ma possiamo immaginare che il pittore che le ha eseguite abbia dato sembianze femminili ad entrambe.
Questa supposizione è suggerita anche dalle scelte testimoniate da una ulteriore serie eseguita dallo stesso artista, questa volta completa e incentrata sulle Stagioni. In questo gruppo di quattro tavole ovali trascorse sul mercato antiquario (fig. 6; cm 28×22) non solo la Primavera e l’Estate sono femmine, ma anche Autunno e Inverno, periodi simboleggiati tradizionalmente da protagonisti maschili.
L’intrigante insistenza sull’universo femminile di questi insiemi di dipinti si ritrova anche in ulteriori due ottagoni su tavola di misure quasi identiche (fig. 7; cm 35,5×30) e ovviamente della stessa mano. Si tratta dell’Allegoria della Liberalità e dell’Allegoria della Commedia di collezione Giovanni Pratesi, pubblicate come opera del fiorentino Francesco Conti (1682– 1760) nella monografia sull’artista (F. Berti, Francesco Conti, Firenze, 2010, n. 69, pp. 214-215).
Risulta evidente l’identità stilistica di tutte le opere menzionate, caratterizzate sempre da una fattura veloce e immediata, con rapide pennellate e una rimarchevole freschezza di esecuzione. Si tratta quindi di una finora ignota attività collaterale alla produzione di vaste pale d’altare e dipinti di maggiore impegno, in gran parte di soggetto religioso, del protetto di casa Riccardi.
Per le caratteristiche sopra elencate, queste realizzazioni trovano particolari riferimenti nel corpus dell’autore, per la similare modalità espressiva, anticlassica e quasi spregiudicata negli abbreviati modi pittorici, in opere come il Cristo Benedicente e il San Sebastiano (Berti, op. cit., n. 45, pp. 176-177) e nel gruppo di dipinti con scene della Passione (n. 46, p. 178). La realizzazione di una serie come quella in esame, raffigurante per la maggior parte un insieme di regine ed eroine del passato, trova antecedenti in celebri ensemble di dipinti, sempre caratterizzati da numeri consistenti e similmente improntati all’universo femminile, quali la rassegna di bellezze romane di Jacob Ferdinand Voet, realizzata per la residenza del cardinale Flavio Chigi ad Ariccia e poi replicata per altre famiglie romane, oppure, per rimanere in Toscana, la serie delle “Bellezze di Artimino”, parata di decine di avvenenti donne romane e della corte medicea dipinta a fine Cinquecento da vari autori per Cristina di Lorena, o le sessantasei “Bellezze ovali”, ritratti di dame di Lucca e Firenze, eseguite da Antonio Franchi intorno al 1690 per Violante di Baviera, sposa del Gran Principe Ferdinando.
Dimensioni: 36 x 29 cm
Introdotto presso la bottega del celebre pittore Simone Pignoni grazie all’intercessione del marchese Riccardi, all’inizio dell’ultimo decennio del Seicento, Francesco Conti poté entrare in contatto, in tale occasione, con l’arte anche di altri artisti che collaboravano nella gestione dello studio e nella realizzazione delle opere commissionate all’ormai anziano maestro.
Tra questi, ruolo fondamentale nella formazione del giovane pittore dovette svolgerla lo zio Giovanni Camillo Ciabilli, eletto Accademico del Disegno nel 1699, il cui linguaggio artistico fece da mediatore allo stile del Pignoni.
Personaggio di notevole caratura intellettuale ed attento in prima persona alle arti figurative, il marchese Francesco Riccardi portò il Conti diciottenne con sé a Roma nel novembre 1699, dove ebbe l’occasione sia di vedere i più grandi capolavori della città (in particolare entrò in contatto con l’arte di Raffaello e dei Carracci) sia di partecipare ad una vera e propria scuola presieduta da Giovanni Maria Morandi e dal celebre Carlo Maratta.
In questo periodo, fondamentale per la formazione del nostro, è lo studio del disegno e delle statue antiche, unitamente ad un’incessante pratica del disegno dal naturale, tanto che la sua presenza è documentata presso l’Accademia di San Luca e l’Accademia di Francia.
Fu in questo contesto che iniziò la sua attività di pittore, soprattutto presso diversi cardinali ed importanti nobili famiglie romane, quali gli Albani. In tali anni avviò anche la sua carriera d’insegnante, inizialmente come maestro d’arte per la figlia del marchese Cosimo Riccardi mentre dal 1706 sarà impegnato con la carica di “Maestro della Pubblica Scuola del Disegno”.
Nel 1705 ritornò a Firenze, in una città il cui panorama culturale risultava vivacemente animato dalle scelte artistiche del Gran Principe Ferdinando, fautore di numerose commissioni ad artisti: i veneti Sebastiano e Marco Ricci, i genovesi Alessandro Magnasco e Antonio Francesco Peruzzini, l’emiliano Giuseppe Maria Crespi, la cui arte apportò spunti innovativi a quella degli autori locali.
Francesco Conti continuò ad essere il pittore della famiglia Riccardi, come indicano i periodici pagamenti di materiali di lavoro ed importanti commissioni, quali una Pietà per il palazzo nobiliare, annotati nei registri e i tre soffitti del casino di Gualfonda.
Queste ultime in particolare sono una chiara espressione della pittura del Conti, caratterizzata da panneggi rigidi e spigolosi, ambientazioni scarne e piuttosto tetre, anatomie ben tornite ma poco rigide e scoordinate. La fase giovanile è infatti caratterizzata dalla realizzazione di dipinti che presentano chiari ricordi di un altro celebre artista del Cinquecento fiorentino come Andrea del Sarto, che dovette certamente studiare a fondo. Il secondo decennio del Settecento porta con sé delle novità stilistiche: maggiore serenità e abbandono dei severi accenti romani neo-cinquecenteschi a favore di una certa spigliatezza e serenità cromatica d’impronta veneta: del 1715 è l’Adorazione dei Magi per le Monache del Monastero Nuovo, opera caposaldo nel corpus di Francesco Conti, che abbandona definitivamente gli accenti tetri del periodo giovanile, addolcendo gli sguardi e i volti dei personaggi e arricchendo la pennellata, ad imitazione della maniera di Sebastiano Ricci.
Tangenze con l’arte veneta si ravvisano, inoltre, nella resa raffinata e materica degli abiti, nella leggerezza della pennellata e nel contrasto tra la luce aranciata e l’azzurro intenso dello sfondo. Una standardizzazione idealizzata è oramai avvenuta nei volti, che assumono a quest’altezza cronologica le fattezze tipiche impiegate dal Conti.
Durante il quarto decennio del Settecento vedono la luce le sue massime realizzazioni, che gli valgono la decorazione dello Spron d’oro, da parte di papa Clemente XII. E’ in questi anni che realizza importanti opere accomunate da una qualità pittorica da raffinatezze tecniche e cromatiche notevoli.
Si tratta di dipinti contraddistinti da una gamma cromatica preziosa, molto accesa e contrastata, fatta risaltare dalla luce sul fondo scuro o con effetti eterei, in linea con la migliore pittura europea di quegli anni. A tal proposito possono ricordarsi la Santa Caterina d’Alessandria in gloria del Museo Civico di Prato o il Ritorno dalla fuga in Egitto al Cleveland Museum of Art.
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