La rappresentazione dei mori nell’arte
La raffigurazione dei mori nell’arte è una tematica tanto ampia quanto di difficile approccio, non solamente per la vastità del fenomeno sia dal punto di vista geografico che temporale, ma anche per la delicatezza dell’argomento. In questa sede non ci si soffermerà a parlare delle figure dei Magi e in particolare di Baldassarre, quanto piuttosto della rappresentazione profana e aprendo dunque a un altro tipo di argomentazione.
Diffusasi sia in pittura che in scultura e nelle arti decorative, per la realizzazione di arredi e complementi, soprattutto in quest’ultimo campo la raffigurazione di mori è stata per lungo tempo immancabilmente rimandata ad artisti e manifatture veneziane.
Nella città lagunare e nelle aree limitrofe, infatti, queste rappresentazioni erano molto radicate nell’immaginario artistico: uno degli esempi più noti si può registrare già sul finire del XV secolo, nel telero licenziato da Vittore Carpaccio e raffigurante il Miracolo della Croce. Qui la figura del moro è relegata a una condizione servile, come gondoliere di un nobile signorotto, con una modalità che troverà esiti ancora ben più crudi nei secoli successivi.
In realtà, ancora prima, Andrea Mantegna nella Camera degli Sposi aveva dipinto una serie di figure che si affacciano dall’oculo e tra queste appare un volto di mora con turbante, anche in quest’occorrenza relegata al ruolo di domestica della nobildonna accanto alla quale è ritratta.
Questo tipo rappresentativo registrò un particolare successo a cavallo tra il Sei e il Settecento e l’epicentro fu senza alcun dubbio Roma, patria del Barocco con la figura di Gian Lorenzo Bernini e la sua ricerca di teatralità. L’artista riferimento della corte papale e delle più importanti personalità nobili e borghesi della città capitolina era a capo di una ben organizzata bottega ed ebbe infatti numerosi allievi e seguaci, i quali aderirono a questo stile dalla resa fortemente scenografica, seguendo le ideazioni del maestro.
Per il nostro discorso, una particolare menzione merita una categoria di arredi quali i tavoli parietali: la parte strutturale era infatti riccamente intagliata e se inizialmente questa era costituita da poderose volute fogliacee e caratteristici motivi a ricciolo, sul finire del secolo iniziarono a comparire figure umane o di satiri, sovente di mano di un vero e proprio scultore.
Tra i personaggi che spesso fungono da reggipiano, rappresentati in posizioni accartocciate e di estremo sforzo a sostenere il lastrone di marmo (o la struttura sovrastante nel caso di altre tipologie di mobili) vi sono figure di mori o indiani.
Forse proprio a partire da questo momento, ancora di più che in passato, questa scelta divenne espressione di un chiaro intento politico.
Calzanti sono i confronti con le consolle che si trovano nella Galleria di Palazzo Colonna, studiati da Roberto Valeriani, due dei quali nella Sala dei Paesaggi, caratterizzati da coppie di schiavi accosciati, di mano di Isidoro Beati, mentre i restanti sei (quattro nella Sala Grande e due nella Sala della Colonna Bellica), anch’essi con figure di mori, sono documentati come opera dello scultore Giovanni Battista Antonini e del suo atelier al principio del XVIII secolo. In questo caso il termine “moro” potrebbe essere impropriamente inteso e il suo significato significare più in generale quello di straniero. Più correttamente in questo caso si tratta infatti di turchi, intagliati a tutto tondo nel legno e dorati, allusivi alla vittoria delle truppe cristiane su quelle ottomane nella battaglia di Lepanto del 1571, nel contesto della guerra di Cipro.
Ecco dunque come diventi palese che la rappresentazione di mori in atteggiamento di sottomissione sia legata alla volontà di celebrare la supremazia dei conquistatori europei. Da qui la tradizione si diffuse non solo negli stati pontifici, ma anche nelle principali corti europee: non è insolito ritrovare mori, arabi o indiani raffigurati come prigionieri, spesso incatenati e in posizione di schiavitù.
Gli studi più recenti dimostrano infatti come questa particolare tipologia di sculture a foggia di mori, usati come complementi d’arredo a sorreggere vasi oppure lumi, fosse alquanto diffusa nel vecchio continente, certamente sintomo di una tradizione fin troppo ben radicata.
Di recente scoperta è infatti una coppia di torchères intagliate a foggia di mori reggi-tamburello, conservati presso Ham House a Richmond e qui attestati almeno dal 1677 e per i quali non si esclude possano appartenere a una produzione inglese (qui per l’articolo).
Inoltre sono ormai noti un disegno per un gueridon dell’incisore Jean Le Pautre dove il sostegno è costituito da una figura di schiavo, così come uno stipo del Rijksmuseum di Amsterdam dimostra che l’uso di mori nella produzione olandese era già affermata nel XVII secolo.
Tornando alla nostra penisola, commissioni di questa sorta sono riscontrabili anche in ambito mediceo, tra i quali è doveroso ricordare gli esemplari realizzati per il “gran principe” Ferdinando nel 1683 da Balthasar Permoser, e ancora quelli citati negli inventari di Palazzo Pitti già nel 1637, una coppia a uso di “sgabelloni da lume”.
Come già si accennava all’inizio di questo contributo, la raffigurazione di mori nei complementi d’arredo è però imprescindibilmente legata a Venezia, certamente merito del “Michelangelo del legno” Andrea Brustolon.
Allievo di Filippo Parodi durante il suo soggiorno lagunare, certamente formativo per Brustolon fu il viaggio a Roma, tanto che una volta rientrato in patria si specializzò nell’arte dell’ebanisteria, mostrando chiaramente l’influenza capitolina nell’usare personaggi intagliati a tutto tondo come sostegni per arredi. Celebre esempio sono le opere conservate presso il Museo di Ca’ Rezzonico, come le poltrone del Fornimento Venier, dove dei mori fungono da struttura portante delle gambe e dei braccioli, oppure il portavasi con moretto nudo e incatenato.
A questo punto occorre, però, una precisazione. Precedentemente si è sottolineato come la rappresentazione di mori o indiani volesse sottolineare il predominio della cultura e della società occidentale. Se certamente questa era una delle motivazioni principali, non bisogna però dimenticare dei rapporti commerciali che Venezia intratteneva storicamente da centinaia di anni con gli altri continenti. La rappresentazione di queste figure divenne dunque anche pretesto per narrare quell’esotismo, dato dalla ricchezza delle stoffe, dai gioielli piumati, che tanto affascinavano e incontravano il gusto dell’epoca.
Assai radicata nella cultura figurativa lagunare, questa moda proseguì anche nel corso dell’Ottocento; un particolare apprezzamento è ravvisabile nella seconda metà del secolo, nel contesto dei revival delle correnti stilistiche del passato.
Pertinente con quello che fu definito come Neobarocco, la realizzazione di questa tipologia di complementi d’arredo subì un ulteriore incremento, spesso caratterizzati da una scelta di gusto espressione dell’eclettismo, dettato dalle eterogenee influenze figurative che si registrarono sul finire del XIX secolo.
Sono infatti documentate diverse realtà veneziane specializzate nell’intaglio ligneo di gusto neobarocco: la ditta Sarfatti (noto è il catalogo di vendita per corrispondenza pubblicato nel 1887), ma anche le botteghe di Valentino Besarel (1829-1902), Vincenzo Cadorin (1854-1925), Marco del Tedesco (attivo nel 1887) e Francesco Taso (attivo nel 1878).
Manifattura veneziana, Moro reggivaso, fine XVII secolo, collezione privata.
A conclusione, teniamo a presentare una breve e personale considerazione. Negli ultimi anni queste tipologie rappresentative sono state analizzate soprattutto in virtù del forte messaggio razziale delle quali sono portatrici, declassandole quali espressione di un atteggiamento deplorevole nei confronti di determinate etnie.
Come già suggerisce la storica dell’arte Hannah Lee nel saggio sopracitato, è normale e doveroso che ci si ponga dei quesiti su queste rappresentazioni, domandandosi come possano essere interpretati dal pubblico contemporaneo.
A nostro avviso, la chiave di lettura dovrebbe essere quella di intenderle come descrizioni della cultura di un determinato periodo storico, espressioni di una specifica società caratterizzata da dinamiche e modalità che certamente sono moralmente da condannare. Il rifiuto e la negazione di questi eventi, nascondendo questa particolare categoria di prodotti artistici sarebbe però a nostro avviso controproducente. Come la storia insegna, celare alcune rappresentazioni e, ancora peggio distruggerle, non porta a una vera e matura riflessione sulle stesse.
Del resto, l’iconoclastia non ha mai portato a nulla di buono.