Dal disegno al marmo: Antonio Canova
La scultura di marmo è una tra le forme artistiche più complesse. La sua realizzazione, a differenza della terracotta, prevedeva infatti una lavorazione di tipo sottrattivo. L’artista doveva intervenire con scalpelli e martelli sul blocco di pietra, prima sbozzando a grandi linee i volumi, per poi intervenire con ceselli utili alla definizione dei particolari.
Grande attenzione doveva essere prestata a non togliere più di quanto necessario, eventuali errori potevano essere risarciti con inserti in gesso, che andavano però a intaccare il pregio dell’opera. Anche la scelta del blocco di marmo era importantissima, in quanto durante la lavorazione potevano verificarsi crepe o spaccature all’altezza delle venature della pietra.
Come è ben noto, le sculture in marmo videro il loro momento d’oro nell’antichità greco-romana, anche se con un effetto ben lontano rispetto a quello al quale siamo abituati. I ritrovamenti sette e ottocenteschi riportarono alla luce delle opere in cui il marmo era a vista, con quell’effetto candido che tanto venne elogiato. Gli studi condotti nel XX secolo hanno invece dimostrato la presenza di tracce policrome. Le statue erano infatti completamente dipinte, a creare un effetto di maggiore mimetismo.
Proprio sull’onda della fortuna della statuaria antica, questa tecnica artistica venne particolarmente apprezzata a partire dal Rinascimento con grandi personalità quali Michelangelo, passando poi al Barocco con Bernini e, quasi due secoli più tardi, Antonio Canova.
Quest’ultimo fu uno dei portavoce della cultura neoclassica, caratterizzata per l’appunto da una riscoperta dell’antico, sull’onda delle teorie di Winckelmann, secondo il quale l’arte greca era espressione di “nobile semplicità e quieta grandezza”.
Grazie al prezioso archivio di opere lasciate da Canova, si sono potute studiare le modalità operative della sua bottega per la realizzazione delle sculture in marmo. Se tali procedimenti possono essere ipotizzati anche per gli altri scultori, tra i quali i celebri nomi citati, è con Canova che si assiste a una vera e propria razionalizzazione del processo, anche alla luce dell’egemonia della cultura illuminista.
La prima fase era certamente quella di ideazione. La scelta del soggetto, solitamente indicata dai committenti, e l’elaborazione delle posizioni dei personaggi erano rappresentati in disegni. Questi studi prevedevano diverse raffigurazioni da più punti di vista, per cercare di analizzare su un supporto bidimensionale quella che sarebbe poi stata un’opera tridimensionale, fruibile da più angolazioni. Come si è detto, essendo uno dei portavoce dell’arte neoclassica, Canova spesso prese spunto per questa prima fase da opere antiche, sia sculture che pitture, come per il disegno di Amore e Psiche (conservato presso il Museo Civico di Bassano del Grappa), tratto da una scenetta di Ercolano raffigurante un Fauno e Baccante e tradotto in varie incisioni.
L’artista procedeva poi con la realizzazione di un modellino in terracotta, al fine di analizzare la resa dei volumi e soprattutto gli effetti chiaroscurali di un oggetto tridimensionale. Questi modelletti erano considerati da Canova alla stregua di veri e propri studi personali, tanto che li conservava gelosamente all’interno degli armadi nel proprio studio.
Lo scultore procedeva dunque alla realizzazione di un modello di argilla a grandezza naturale, rifinito il più possibile. Questo veniva ricoperto da un involucro di gesso, al fine di realizzare la forma all’interno della quale veniva a sua volta fatto colare del gesso in forma liquida e, una volta solidificato, si otteneva una scultura pressoché identica alla scultura in marmo finale.
L’attenta bottega di Canova procedeva dunque con l’applicazione dei repère, chiodini in bronzo posti simmetricamente e a una precisa distanza gli uni dagli altri.
Alcuni, chiamati punti chiave, erano più sporgenti rispetto agli altri per indicare gli estremi massimi di ingombro della statua.
Il modello in gesso e il blocco in marmo venivano dunque posti sotto due telai con dei fili a piombo per indicare i punti di maggior sporgenza, consentendo ai collaboratori di delineare sommariamente i volumi nel blocco. Le forme venivano quindi rifinite sempre più grazie al cosiddetto “metodo del pantografo”. Le distanze tra i chiodini venivano misurate e minuziosamente riportate sul marmo mediante l’ausilio di un compasso, consentendo dunque di riprodurre fedelmente il modello. Per tale motivo i gessi non venivano mai venduti, ma rimanevano nella bottega per essere usati nelle commissioni future, come facevano già i pittori con i propri cartoni.
Anche gli strumenti cambiano, dal martello si passa al cesello e a scalpelli più piccoli, che consentono di trattare le superfici e di renderne la differente matericità.
Il fascino e l’apprezzamento nei confronti delle sculture di Antonio Canova non è sempre stato uguale. Già in epoca romantica e fino alla metà del XX secolo, l’artista è stato vittima di giudizi negativi. L’attenzione all’impiego della corretta tecnica e alla pulizia formale delle sue opere è stata intesa come una negazione della creatività e dell’impulsività che dovrebbero contraddistinguere l’atto artistico.
Canova è stato visto come una figura che ha soppresso il genio dell’artista a favore di un’estetica che soddisfacesse il gusto imperante. Emblematica di questa considerazione è la descrizione che gli rivolse Roberto Longhi: “Antonio Canova, lo scultore nato morto, il cui cuore è ai Frari, la mano all’Accademia, il resto non so dove”.
È importante sottolineare come queste critiche si collochino all’interno di un’ideologia che tendeva a stigmatizzare gli artisti che si avvalevano di differenti aiuti e che erano più attenti al rigore dell’opera finita. A queste figure, come il Canova, venivano preferiti artisti che nelle loro opere facevano emergere quella che era considerata una loro personale interpretazione della realtà, primi tra tutti Caravaggio.
Recentemente Antonio Canova ha avuto la fortuna critica che merita, quale principale esponente del gusto di un preciso momento storico e culturale. Ne è dimostrazione la fama della celebre Gypsotheca di Bassano del Grappa, che invitiamo a visitare. Nel museo sono infatti conservati i celebri gessi che lo scultore custodiva nel suo atelier romano, e che furono fatti arrivare nel suo paese natale dal fratellastro, il vescovo Giovanni Battista Sartori.
È grazie agli studi del museo di Bassano che possiamo descrivere le tecniche dello scultore.
A ulteriore riprova della fortuna ottenuta da Antonio Canova, vi è anche il successo della mostra, a cura di Stefano Grandesso e Fernando Mazzocca, a lui dedicata presso le Gallerie d’Italia a Milano. Canova / Thorvaldsen.
La nascita della scultura moderna, ove sono state magistralmente confrontate, attraverso una grandissima quantità di opere, la produzione scultorea del nostro e quella del suo alter ego danese Bertel Thorvaldsen, anch’egli attivo a Roma.