Napoli) a (Bergamo. Uno sguardo sul’600 nella collezioni De Vito e in città
Il 23 aprile 2024 l’Accademia Carrara di Bergamo ha inaugurato la mostra dedicata alla pittura napoletana del XVIII secolo e ai legami che questa intrattiene con la città lombarda e il suo territorio.
Nucleo fondante dell’esposizione è quello di 22 delle tele appartenenti alla prestigiosa Fondazione Giuseppe e Margaret de Vito, voluta dall’imprenditore ma anche studioso e collezionista, assieme alla moglie. Queste sono affiancate da diverse opere di provenienza bergamasca, a dimostrazione di come due città tanto lontane geograficamente, in realtà intrattengano interessanti scambi non solo commerciali, ma anche culturali e artistici.
Città di collegamento tra le due protagoniste della mostra è senza alcun dubbio Venezia, che nella metà del secolo registra un particolare apprezzamento per la pittura napoletana, successo che si riverbera anche nei territori a essa culturalmente assoggettati, in primis Bergamo.
Naturalmente la mostra si apre con una rapida quanto dovuta presentazione della situazione pittorica in terra napoletana all’inizio del Seicento, certamente influenzata dall’arte di Michelangelo Merisi detto il Caravaggio, che qui soggiorna per ben due volte, nel 1606 prima e poi ancora nel 1610.
Il naturalismo, la forte ricerca di chiaro scuro e l’intensa drammaticità delle scene vengono immediatamente adottate in modo aderente dai pittori qui attivi come Giovan Battista Caracciolo detto il Battistello e Massimo Stanzione, mentre altri sono in grado di mediare le novità attraverso il proprio particolare stile, come Jusepe de Ribera, che indaga i volti con una personalissima analiticità.
Dopo un primo momento di adesione, verso gli anni Trenta, gli artisti attivi a Napoli dimostrano di aver recepito la lezione caravaggesca, ma di averla oramai edulcorata attraverso un’influenza classicista e barocca, complice anche la presenza nella città di pittori emiliani come Domenichino e Giovanni Lanfranco.
Una certa influenza è inoltre apprezzabile anche dall’arte nordica: grazie ai collezionisti e ai mercanti fiamminghi, in città giungono opere di Rubens, van Dyck, Vouet, Poussin e molti altri.
Così in opere come il Transito di san Giuseppe di
Bernardo Cavallino, la ricerca di naturalismo desunta da Caravaggio è oramai risolta con una composizione e forme eleganti e misurate; e ancora nel Martirio di sant’Orsola di Giovanni Ricca i contrasti chiaroscurali sono accompagnati da una resa pietistica e di muta intimità.
Un soggetto particolarmente apprezzato dai collezionisti della metà del XVII secolo è quello delle figure femminili a mezzo busto, tematica risolta con la raffigurazione di figure di eroine e di sante le quali, oltre a essere considerate vero e proprio status di raffinatezza e cultura, sono anche esteticamente apprezzate, particolarmente adatte ad arredare i salotti privati.
Ecco che dunque anche nelle opere qui presentate, i due pendant di Massimo Stanzione raffiguranti Giuditta e Salomè, la Santa Caterina di Andrea Vaccaro, la Santa Cecilia di Francesco Solimena sono presentate con un’aria profana, sopra tutte la Santa Lucia del già citato Cavallino, dove la religiosa, rappresenta a figura quasi intera, potrebbe tranquillamente essere una nobildonna contemporanea, se non fosse per la palma del martirio e gli occhi suo attributo che la accompagnano.
Ma la Napoli degli anni Cinquanta oramai registra una profonda cesura rispetto alla tradizione precedente, essendo ormai lontana cronologicamente la lezione di Caravaggio, pur continuando a ravvisarne alcune stilemi nella produzione di metà secolo, in questi anni emergono personalità artisticamente forti come Mattia Preti e Luca Giordano.
Il primo, calabrese di origine, ma presente in città per un lungo soggiorno dal 1653 al 1660 è proposto in mostra con due opere: la Scena di carità con fanciulli mendicanti, che va oltre la scena di genere per diventare quasi una rappresentazione allegorica, e la Deposizione, appartenente già al periodo maltese, che mostra l’adozione di una tavolozza più luminosa e un’ardita risoluzione nella visione di scorcio da sotto in su della figura di Cristo.
Giordano, che viene poi sviluppato maggiormente nelle sale successive in virtù del suo rapporto con la città di Bergamo, è inizialmente proposto con un’opera appartenente alla fase iniziale della sua produzione, che dimostra l’influenza della grafica del nord Europa, sviluppandosi però successivamente nel proprio personalissimo stile che influenzerà la sua cerchia. Come brevemente accennato, Luca Giordano ha rivestito un ruolo particolarmente importante anche per la città orobica: di chiara fama, fu chiamato, grazie alla mediazione del mercante veneziano Simone Giogalli, dal Consorzio della Misericordia Maggiore (MIA) nel 1681, per realizzare una grande tela raffigurante il Passaggio del Mar Rosso, per la parete di fondo della basilica di Santa Maria Maggiore in Città Alta.
Il rapporto epistolare dimostra come i committenti volessero che la tela fosse completamente autografa del maestro, senza l’intervento di alcun suo collaboratore, chiedendo dunque ai propri referenti napoletani di sovrintendere ai lavori. Il risultato fu talmente apprezzato che il Consorzio chiese a Giordano di realizzare l’apparato decorativo anche della volta, ma dovendo egli partire per la Spagna, lasciò il lavoro in favore del suo discepolo Nicola Malinconico.
Un’intera sala dell’esposizione è dedicata a quattro tele di mano di Giordano, attualmente a Pedrengo (nella provincia bergamasca), ma in origine provenienti da una collezione veneziana. Le dimensioni considerevoli non sono per l’artista un ostacolo a composizioni ben studiate e alla raffigurazione delle poderose anatomie, con una trattazione della luce e delle ombre che dichiara ancora una discendenza caravaggesca e rendono apprezzabile le sapienti e materiche pennellate di colore.
La fortuna di Giordano nell’area del lombardo-veneto fu tale che molti artisti fecero copie delle sue opere (come quella della tela per la MIA, a opera di Antonio Cifrondi) e iniziarono a circolare numerose incisioni derivate dai suoi dipinti, come per la Discesa di Cristo dalla Croce, da lui realizzata per l’altare maggiore della chiesa veneziana di Santa Maria del Pianto, e che trovò degli estimatori da parte degli stessi Fantoni, i quali ne derivarono delle variazioni in terracotta come quelle presentate in questa sede.
La mostra si conclude con il sopracitato Nicola Malinconico, la cui opera si contraddistingue per la tavolozza vivace e brillante che apprende dal maestro durante la frequentazione della sua bottega, verso la fine degli anni Ottanta. Attivo inizialmente in Santa Maria Maggiore, Malinconico fu apprezzato dalla committenza bergamasca, concludendo brillantemente il suo soggiorno cittadino, prima del rientro a Napoli, dipingendo la pala principale per l’abside del duomo, raffigurante il Martirio di sant’Alessandro.
La mostra tratta una tematica insolita quanto meritevole di attenzione, offrendo interessanti spunti di ricerche e considerazioni sui rapporti artistici tra le diverse città della penisola. L’apparato informativo è stato egregiamente sviluppato, fornendo al visitatori gli elementi fondamentali per apprezzare e comprendere le opere esposte, accompagnando il visitatore
attraverso un secolo di pittura in una tematica trasversale e certamente di non semplice approccio. Anche l’allestimento è stato studiato per seguire il racconto in questo fil rouge, con un attento uso delle luci, più contrastate e tenui all’inizio della mostre e via via più intense mano a mano che ci si avvicina allo scorcio del secolo.
La mostra è visitabile fino al 1 settembre 2024.