Presso il Museo di Santa Giulia di Brescia, dal 14 febbraio e fino al 11 giugno 2023, si svolge la mostra “Miseria&Nobiltà. Giacomo Ceruti nell’Europa del Settecento”.

La rassegna apre la serie di eventi espositivi promossi da Fondazione Brescia Musei e Comune di Brescia, in occasione dell’anno che vede la città, assieme a Bergamo, Capitale Italiana della Cultura.

Come spiegano i curatori Roberta D’Adda, Francesco Frangi e Alessandro Morandotti, la mostra si colloca come prosecuzione sugli studi di Giacomo Ceruti, detto il Pitocchetto, figura rimasta pressoché nell’ombra fino agli anni Venti del Novecento.

Nonostante fosse stato uno degli artisti più attivi e interessanti del panorama lombardo-veneto fino agli anni Sessanta del Settecento, infatti, il suo nome è solamente citato di sfuggita nelle guide successive.

La riscoperta di Ceruti e l’avvio degli studi sulla sua arte ebbe come principio la mostra fiorentina “Pittura italiana del Seicento e Settecento”, tenutasi nel 1922, occasione nella quale fu presentata la celebre Lavandaia con la corretta indicazione attributiva e che tanto interessò Roberto Longhi. Egli, infatti, ne sottolineò il “carattere stupendamente paesano e antico” e anche grazie a quest’opera riuscì ad approntare il catalogo del Ceruti, ascrivendovi opere del calibro della Giovane con ventaglio dell’Accademia Carrara di Bergamo, dove fino a quel momento era conservata come opera di Pietro Longhi.

“Lavandaia” Giacomo Ceruti

Interessante è proprio l’accostamento tra questo dipinto e una coppia di opere di Longhi, a riprova dell’immediatezza e dell’introspezione con la quale è resa la ragazza dai capelli rossi, che non può trovare riscontro nel nome di Longhi, autore di scene di genere di piccolo formato caratterizzate da una resa ironica della società, non senza una vena di pettegolezzo.  

Queste opere accolgono il visitatore nella prima sezione della mostra, dedicata alla riscoperta novecentesca del nostro, anticipando il fil rouge che ne caratterizza l’itinerario espositivo.

Sviluppato in sette sezioni, il visitatore è accompagnato in un percorso che, pur rispettando l’ordine cronologico e dunque la naturale evoluzione della pittura di Ceruti, si concentra anche su temi ed episodi ben specifici, al fine di riuscire il più possibile a dipanare la matassa di un artista complesso.

Proprio per questo motivo, accanto alle opere dell’artista al quale è dedicata la mostra, sono presentati anche dipinti di diversi artisti, il confronto coi quali è interessante per mostrare e comprendere il retro-terra linguistico e culturale, ma anche le influenze che Ceruti subì e ancora come sviluppò, rispetto ad altri, il filone della ritrattistica e della scena di genere. Ecco che allora, accanto al già citato Longhi, trovano posto anche dipinti di Giovan Battista Moroni e Frà Galgario (al secolo Vittore Ghislandi), le cui opere Ceruti dovette conoscere e farsi influenzare.
A tal proposito sono interessanti i confronti proposti nella seconda sezione, dedicata agli esempi della ritrattistica giovanile, genere nel quale Ceruti appare molto abile fin dagli esordi e da lui prediletto nella fase della città ospite della mostra (1721-1733 circa). Attivo per la nobiltà della provincia bresciana e, in particolare della Valle Camonica, dove lavorò anche per l’alta borghesia e il clero, rivela di guardare a Ghislandi, in particolare al Ritratto di Giovanni Avogadro, i cui colori mostrano una conoscenza della tavolozza del frate bergamasco.

Ritratto di Giovanni Avogadro
Il percorso espositivo procede con un focus esplicito sulle scene di vita popolare, concentrandosi in particolar modo sui precedenti che fungono da retroterra linguistico al nostro e i suoi contemporanei con i quali deve confrontarsi.

Se il tema popolare aveva trovato successo a partire da Caravaggio, dal quale ne era derivato un vero e proprio filone che oramai presentava un repertorio pressoché stereotipato, la capacità di Ceruti e di altri artisti coevi, è quella di riprendere queste tematiche edulcorate da una visione quasi caricaturale e grottesca, per riportare i popolani, ma anche gli emarginati, a una descrizione reale, cruda, ma che allo stesso tempo conferisca loro una nuova dignità, attraverso una lettura solidale e priva di derisione. Di chiara derivazione moroniana è l’attenzione all’introspezione psicologica, che da Ceruti viene adattata alla descrizione anche delle classi sociali più basse. L’effetto finale è sorprendente: l’artista rappresenta non tipi e maschere, ma personaggi reali, investiti di una loro dignità.

La quarta sezione della mostra è interamente dedicata all’eccezionale Ciclo di Padernello, dal nome della località nella quale furono ritrovate, nel 1931, tredici tele con mendicanti e “scene rustiche”, assieme a una quattordicesima sempre della stessa proprietà, ma all’epoca conservata a Brescia. Nella sede espositiva di Santa Giulia sono state riunite undici opere, per le quali ancora indefinita risulta la committenza, che potrebbe fornire informazioni fondamentali circa la comprensione dell’esatto significato delle rappresentazioni.

Interessante è il contrasto tra il crudo naturalismo delle opere del ciclo e le opere presentate nella sezione successiva, appartenenti al soggiorno veneto. Qui, e in particolar modo nella città lagunare, Ceruti risentì inevitabilmente del clima culturale e figurativo, manifestando nelle sue opere scelte più sofisticate rispetto alle ambientazioni spoglie del periodo bresciano e l’utilizzo di un colorismo più vivace. Il tema dei poveri e dei mendicanti fu investito di una nuova atmosfera elegante e quasi filosofica e iniziò ad affrontare tematiche fino ad allora per lui inedite, quali paesaggi e nature morte realizzati per Johann Matthias von der Shulenburg, uomo d’armi tedesco che risiedette a Venezia e che commissionò numerose opere all’artista.

Durante il periodo veneto, Ceruti fu assai prolifico anche nel filone sacro, per gli altari padovani. Anche in questa produzione appare oramai consolidata quella che, a tutti gli effetti, può essere definita la sua seconda maniera, avendo oramai recepito appieno le suggestioni veneziane.

L’excursus sul Pitocchetto prosegue con un focus sulle opere della fase più avanzata della sua carriera, in particolare sulla ritrattistica. Il rientro in Lombardia gli consentì di affermarsi come uno dei ritrattisti più richiesti dalla nobiltà milanese, grazie alla peculiarità insita della sua opera oramai pregna della forte influenza della veneta, mediata dai modelli internazionali con i quali dovette necessariamente confrontarsi.

La mostra si chiude con la produzione degli ultimi anni, mostrando la naturale evoluzione delle scene di genere, ma anche i nuovi soggetti da lui affrontati negli anni della maturità. Appare chiaro come il naturalismo tipico della prima fase della sua carriera sia oramai stato stemperato dalle nuove esperienze, realizzando opere permeate da una maggiore leggerezza ed eleganza. Ne è un chiaro esempio l’Incontro al pozzo (non presente in mostra), dove la narrazione si rivolge non più alla rappresentazione degli ultimi quali portatori di una loro dignità, ma a a una scena amorosa a tutti gli effetti. Ma ancora più interessante è come, oltre che dal punto di vista linguistico, Ceruti abbandoni completamente la rappresentazione dei ceti popolani più bassi ed emarginati.

I pitocchi che gli valsero il soprannome con il quale ancora oggi è conosciuto spariscono dalle sue tele, mostrando un artista che segue quella che è la moda figurativa di quegli anni.

La mostra si propone dunque come un vero e proprio excursus sulla produzione pittorica di Ceruti, nella città con la quale egli stesso istituì un legame indissolubile, riuscendo a dipanare un po’ di più la matassa di un pittore sempre più apprezzato e riconosciuto.

Per una breve biografia dell’artista, vedi:

Ritratto di Giulio Gregorio Orsini, Giacomo Ceruti, 1755